11 ottobre 2019 | Lele Masiol protagonista di un racconto breve di Mariledi Chiodi

Condividi su:

Giorni fa a Murano sono stato testimone di una piacevole scena tra il proprietario della Busa a la Torre ed una cliente che stava godendosi l’atmosfera del luogo con i deliziosi biscotti appena sfornati.
Mentre ero seduto che chiacchieravo con Lele, si avvicina a lui una signora, ho scoperto poi che era una scrittrice, che gli porge un piccolo racconto da lei scritto proprio per “Lele Masiol”.
Mariledi Chiodi esordisce con “Carissimo Lele, come promesso il 14 giugno, ti ho portato questo piccolo racconto che parla del tuo locale e non solo….; volevo regalartelo prima di farlo conoscere ad altri.

Sorpreso da questo gesto generoso e gentile, ho voluto fissare il momento con una istantanea che lascio qui a destra come ricordo dell’incontro. Mariledi mi autorizza a pubblicarlo sul sito della Società Duri i Banchi, dopo una mia inevitabile presentazione ed il racconto sugli obiettivi di questo antico sodalizio formato da 50 uomini.
Di seguito il breve ma intenso racconto che parla di momenti e persone che si muovono in una indimenticabile Murano.

“ Tanto tempo fa sono stato un pirata a volte un furfante e ora vi racconterò la mia storia.
Ho sedotto ragazze dagli occhi grandi e dai capelli lunghi, che conoscevano il mondo ma fingevano di essere più ingenue di me, ho trafficato con cose che fanno male alla salute, ho picchiato chi era cattivo, aveva imbrogliato, o fatto un torto.
Mi chiamo Oreste. Sono nato sulle colline, tra le montagne e la pianura.
Ora ho una certa età, mi sono fermato e ho smesso di rischiare la vita per pochi soldi. Ho scambiato la mia libertà con un lavoro.
Faccio l’oste, sono il padrone di una osteria che si trova in una zona periferica di Venezia, in un campiello fuori mano, alla fine di una lunga calle, lontano dal chiassoso flusso dei turisti.
Il locale è frequentato quasi sempre dagli abitanti del sestiere che abitano qui vicino.
Sono tutti veneziani e, quando devono andare al mercato rionale per fare la spesa, o quando alla sera, tornando dal centro della città dopo avere lavorato tutto il giorno, si fermano a bere un caffè, o uno spritz fatto come si deve.
In effetti, il mio locale è un bar, un’osteria per gente umile, pensionati che trascorrono il pomeriggio nella saletta interna a giocare a carte, o il gruppo di donne che si trova qui ogni settimana dopo avere fatto visita, asciugato una lacrima e portato fiori ai cari mariti defunti che riposano al cimitero di S. Michele.
Le vedove, appena entrano ordinano un caffè, una cioccolata calda, o un gelato, o uno spritz, ma più spesso un abbondante bicchiere di Marsala da Donne magari con i biscotti. Poi mentre aspettano, si accomodano nella saletta dei pensionati e spesso baruffano con loro per il posto, ma, se c’è da spettegolare, fanno presto a fare pace.
Incominciano con pensieri profondi, su chi è morto, su chi è vivo o su chi è malato e manca poco poveretto, si commuovono bevendo un goccetto, poi passano all’esame della situazione mondiale da esperti di guerra, di pace e di politica estera, e giù un altro goccetto, scuotendo sconsolati la testa ancora di più, atterrano sulla politica italiana, e giù due goccetti, ci vogliono proprio, poi si asciugano le labbra con il dorso della mano e restando senza parole, per un poco c’è silenzio, in seguito, prendendo nuovo vigore, discutono sul grado di maturazione dei pomodori da mettere nell’insalata o sul vino migliore per accompagnare una buona frittura di pesce, alla fine gesticolando, alzando la voce, arrabbiandosi e bevendo il resto, si impantanano sull’analisi della sbornia di vino bianco, presa il sabato prima, molto diversa da quella di vino rosso presa in precedenza. Ormai non ce n’è più, hanno finito anche questa ombretta e bisogna fare un altro giro.
Sono chiacchiere così, leggere, che si possono ascoltare, gustare, assaporare, che rimbalzano, che ti avvolgono, che ti scaldano dentro, come un buon cibo, una danza o un gioco.
Parole dette così in confidenza, che non fanno male a nessuno. Ben diverse da quelle che analizzando qualche novità locale, rendono elettrica l’aria.

hai sentito, per il vestito del matrimonio, la figlia della tabaccaia ha usato dieci metri di pizzo bianco candido e altri cinque per il velo. Ha speso un patrimonio.
in tutto fa quindici, un metro per ogni fidanzato che ha avuto. La verginella.
ieri mattina dal pittore da muri sono arrivati i vigili a pignorare i mobili….. poveretti.
ma cosa poveretti, che la moglie poi è andata a spasso col cappello in testa, i tacchi alti e i guanti lunghi che pareva la regina del Katai.
Ti conto l’ultima, il falegname ha trovato, in un antico mobile che stava mettendo a posto, un sacchettino pieno di monete e lo ha consegnato tutto ancora chiuso, sigillato al padrone del mobile. Erano venti…. d’oro…… di Francesco Giuseppe, una fortuna. E le ha restituite tutte! Ne ha avuta solamente una in regalo. Ah che onestà.
si dillo alla moglie che dopo che lo ha saputo ha urlato improperi per tutta la calle. Voleva buttarlo fuori di casa, non hanno neanche i soldi per mandare la figlia alla scuola di ballo che è tanto brava e bella, poverina, e lui va a fare l’onesto con quello che ha imbrogliato tutti, che è pieno di soldi, così tanti che non sa neanche come spenderli!
hai sentito che è morto il vecchio padrone della vetreria, quella lontana là in fondo,sulla riva. I nipoti, che ereditano una fortuna, volevano fargli un funerale di lusso con il corteo di barche, i drappi neri, i rematori, le corone di fiori fin sull’acqua, che cerimonia bella.
ma quando hanno saputo il conto hanno cambiato idea, una barca sola, gli altri in vaporetto, se potevano mettevano in vaporetto anche la cassa con il morto, e via così, di corsa fino al cimitero di San Michele.
Questo è quello che succede, ogni giorno.
Fino a poco tempo fa.
C’è un tavolino nell’angolo in fondo della saletta, poco dopo la porta del gabinetto che nessuno occuperebbe mai, è il posto dove si sedeva Celestina, una vecchietta dolce, piccola, dai modi gentili, rosa di cipria e di profumo.
Con i suoi passettini corti e ticchettanti, tutti i pomeriggi, piano piano la donnina partiva dal suo appartamento, percorreva la lunga calle, con fatica saliva e scendeva dal ponte, finalmente girava l’angolo e arrivava al bar.
Le faceva strada Armando, un grosso gattone nero, dal pelo così lucido e folto che sembrava una piccola pantera, e come una guardia del corpo scortava Celestina fino all’arrivo. Poi si fermava fuori, si accoccolava al lato della porta, sopra a una sedia scassata e mentre si lasciava colpire dai raggi dell’ultimo sole al tramonto, guardava con sguardo assorto i clienti che entravano e uscivano, immobile aspettava che uscisse anche la sua compagna, e insieme se ne tornavano a casa.
Sulla via del ritorno lei gli parlava e c’è chi giura che il gatto rispondesse. Lei chiedeva se si era comportato bene, se aveva fatto il bravo, lui rispondeva girandole attorno, strusciandosi sulle gambe, agitando la coda e facendo brevi versi con la voce.
Ogni volta che entrava, prima di sedersi al solito tavolino, Celestina prendeva dalla tasca un biglietto e me lo porgeva sorridendo timidamente. Sempre c’era scritto:

Caro Signor Oreste, per favore può dare a mia figlia Celestina una cioccolata calda? Poi passerò a pagare il conto. Grazie di tutto, la mamma di Celestina.
Dopo avere letto il biglietto fingendo molto interesse, portavo alla donnina quello che desiderava. Lei mi rivolgeva uno sguardo pieno di gratitudine, con occhi incantati e un timido sorriso sussurrava: – Grazie Oreste. Come stai oggi? Raccontami qualche cosa delle tue colline, sono belle in questa stagione? Ci sono fiori sui prati? Quando viene il tempo delle castagne? E’ bello il castello? E dimmi Oreste ci sono le dame nel castello?
Io cercavo di rispondere meglio che potevo, se c’era poca gente mi fermavo e le parlavo dei prati, dei boschetti, dell’erba profumata, dei colori dei fiori, dell’arietta della primavera, o del freddo asciutto dell’inverno, delle belle dame che vivevano là.
Lei mi ascoltava con occhi sognanti come una bambina.
Poi sospirando guardava a lungo la tazza piena, prendeva il cucchiaio e con il ditino alzato gustava piano piano tutta la cioccolata calda.
Alla fine, terminata fino all’ultima goccia, con un sospiro soddisfatto posava il cucchiaio sul piatto e cominciava a guardarsi attorno con aria gentile e quieta. Aveva per tutti un sorriso. E nessuno, neanche il più rozzo e sgarbato, avrebbe fatto a meno di ricambiare il saluto.
Rimaneva un poco così guardando in giro sorridendo, ma senza parlare. Non parlò mai con nessuno, solamente con me e solamente delle colline.
Sazia di cioccolata, di rumori e di persone, si alzava dalla sedia, andava al bancone e sussurrava con una vocina sottile, sottile:
Grazie, Oreste, quando arriverà la mia mamma, passerà subito da te e pagherà il conto, doveva già essere qui, ma si vede che è in ritardo.
Proprio così, per tutta la vita, giorno dopo giorno, Celestina aspettò la sua mamma, la donna che l’aveva abbandonata appena nata e che non conobbe mai.
Fin da bambina piccolissima, quella figura femminile che non aveva mai conosciuta, nella sua mente prese la forma di una gran dama alla corte di Caterina Cornaro, lassù nel castello al sole delle colline.
Dopo i lunghi anni in orfanotrofio, dove imparò a fare le collane veneziane, qualcuno le permise di abitare in quell’appartamento composto da due camerette di proprietà dell’istituto che l’aveva fatta crescere e le aveva insegnato un lavoro.
Andò avanti così, un giorno dopo l’altro, passò la sua vita seduta alla luce della finestra a infilare perline nel grande pettine cercando i colori giusti, il filo giusto e il fermaglio più sicuro.
Fece le collane più belle, per le signore più esigenti, ma lei rimase sempre povera.
Fino a poco tempo fa.
Era il giovedì grasso di pomeriggio, nel bar c’era molta gente, arrivò anche Celestina con il suo gatto nero e il bigliettino. Alla cioccolata calda avevo aggiunto una bella frittella ripiena di crema.
Grazie Oreste, per merito tuo oggi faccio festa anch’io, come sei buono.
E cominciò a strappare il dolcetto in bocconcini piccoli e a intingerli nella cioccolata con il cucchiaino, faceva la zuppetta e mentre lo faceva chiudeva gli occhi estasiata.
Con un gran chiasso, risate e canzoni, un gruppo di gente mascherata uscì dalla calle, attraversò il ponte e si avvicinò al bar, qualcuno entrò.
Celestina, con il cucchiaino di cioccolata a mezz’aria, alzò gli occhi dalla tazza e incrociò lo sguardo di una donna mascherata che stava entrando per andare al gabinetto.
Era mascherata da gran dama, dall’abito ricco e colorato, dal viso bianco, roseo, sorridente, illuminato da brillanti orecchini e circondato un’enorme acconciatura bionda piena di ricci e boccoli.
Mamma- sospirò Celestina e mettendosi una mano sul cuore si alzò dalla sedia – abbracciami, dammi un bacio , finalmente sei venuta a prendermi per portarmi con te.
La dama sorrise.
Il cucchiaino cadde rumorosamente dalla mano e Celestina lo seguì afflosciandosi sul pavimento nello sgomento di tutti i presenti.
Non si alzò più.
Da quel giorno e per molti giorni di seguito, l’atmosfera del bar-osteria cambiò.
I giocatori di briscola continuarono a giocare al loro tavolo, ma calmi, quasi tristi, con le carte in mano abbassavano la voce fino a farla diventare un sussurro, nessuno gridava o insultava il compagno per uno sbaglio. Ad ogni mano, guardando le carte, le aprivano a ventaglio e si nascondevano dietro senza parlare.
Le vedove arrivavano silenziose, salutavano chiedendo gentili di occupare il tavolo vicino e sorridendo composte, promettevano di chiacchierare a bassa voce.
Anch’ io preferivo stare in silenzio, servivo i clienti con fiacca, portando vassoi con cibo buono, ombrette e caffè e ogni tanto buttavo l’occhio sul tavolino vuoto di Celestina e sospirando provavo un sentimento di rimpianto e tenerezza dolce.
Qualcuno aveva visto, mentre asciugavo i bicchieri in piedi dietro al bancone, che con il canovaccio asciugavo anche qualche lacrima che mi scendeva a tradimento dagli occhi.
Da quel momento il vecchio gatto, ogni giorno affronta la solitudine sdraiato sulla sedia rotta vicino all’entrata con le forti zampe e la coda che penzolano dal sedile, guardando il campiello e la sua gente con la saggezza del suo istinto animale e con la dolcezza dell’amore, che Celestina gli aveva lasciato.
Non solo a lui.
Mi chiamo Oreste, tanto tempo fa sono stato un pirata. Ora non più, Celestina ha fatto di me un furfante tenero, un uomo buono.
Mariledi Chiodi. “

Condividi su: